[ Francia 2011 ]
Laure ha dieci anni e si è trasferita da poco in un sobborgo di Parigi con il padre, la madre incinta e la sorellina. La famiglia è unita, Laure ha un bel rapporto con la piccola Jeanne, che accudisce con complicità e dolcezza, e non ci mette molto a conoscere i bambini del vicinato grazie alla mediazione della nuova amica Lisa.
C’è però un dettaglio che turba la semplicità della trama: nel mondo en plein air dei giochi infantili Laure è diventata Mikäel, il nome con cui si è presentata quando al primo incontro, prendendola per un maschio, Lisa le ha chiesto, subito affascinata, «Sei nuovo?». Ci penserà la madre, dopo che ha scoperto l’equivoco, ad accompagnarla a rivelarsi all’amica, anche in vista del prossimo rientro a scuola, quando la verità sarebbe comunque venuta a galla. Ma qual è, a ben vedere, questa verità?
Tomboy di Céline Sciamma non enuncia in modo esplicito il suo messaggio, ma lo affida alla suggestione delle immagini. Già lo si intuisce alla prima sequenza. Dapprima vediamo la nuca di Laure, i suoi capelli corti, le sue spalle esili, e dal rumore di un motore in sottofondo capiamo che sta viaggiando su un mezzo decappottabile; dopodiché, quando l’inquadratura si sofferma sulle mani seguendo con cura le dita che sfidano l’aria, impariamo subito a identificarci con lo sguardo obliquo della macchina da presa: Laure non sarà mai sola in scena, ma in palpabile compagnia di noi spettatori che ne carpiamo i gesti e i movimenti.
E in nostra compagnia Laure, interpretata con gentile sensibilità da Zoé Héran, osserva allo specchio il proprio corpo con occhi ora stupiti ora indagatori, accoglie con un lento sorriso il primo bacio di Lisa e poi, adeguandosi al sempre più impegnativo ruolo di maschio, si toglie la maglietta per giocare a calcio, si inventa una piccola protesi di pongo per simulare di avere un pene sotto il costume, fa a botte con un ragazzino per difendere la sorella.
Tuttavia, lo sguardo che lambisce il corpo di Laure/ Mikäel, non se ne impossessa mai veramente: non vira in una presa di posizione netta che preannunci a chiare lettere il destino omosessuale o transgender dell’età adulta. Piuttosto, la tecnica del “fiato sul collo” dei personaggi praticata dai Dardenne incontra il tocco alla Truffaut degli Anni in tasca e crea un effetto ossimorico: Tomboy risulta un film in levare che si regge su rarefatti equilibrismi, ma non per questo è meno fisico ed efficace. Così, quando nell’ultima scena, di nuovo con Lisa, la protagonista si riappropria del nome “Laure”, sentiamo che sta avendo inizio una nuova fase in cui le scelte identitarie, qualsiasi esse siano, non saranno più forzate in un’aderenza coatta al femminile (il vestito che la madre la obbliga a indossare al momento della rivelazione) o in un sofferto adeguamento agli stereotipi maschili (gli sputi e le prove di forza): Laure potrà porsi al di là dell’aut aut femminile/maschile e liberamente essere una tomboy – e non sarà un caso che un equivalente di questo termine manchi nel nostro vocabolario, che per denotare le infrazioni alle ripartizioni di genere usa le sfumature dispregiative di “maschiaccio”, così come sull’altro fronte vige “femminuccia”.
Di converso, alla tomboy Laure, non più al finto Mikäel, Lisa potrà volere bene in una forma che la regista lascia volutamente in sospeso, considerando la definitezza dell’epilogo secondaria rispetto all’affermazione del diritto a una più flessibile costruzione del sé.
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